Il dipinto


Ho partecipato a una gara letteraria nella quale si doveva presentare un racconto con un massimo di 20’000 battute (spazi inclusi) che, al contrario di molte storie a lieto fine, fosse con un finale triste.

Difficile per me che sono di natura ottimista, ma ho voluto provarci lo stesso e oggi finalmente vi posso svelare il mio racconto.

Come avete già potuto intuire dal titolo e dall’immagine, il titolo del mio racconto è:

Il dipinto

Il pennello lasciava sulla tela ombre e sfumature mentre la mano esperta di Giosuè proseguiva nella creazione di un altro dipinto. Era concentratissimo tanto da non accorgersi della presenza di Matilde alle sue spalle. Quando la vena artistica s’impossessava di lui niente riusciva a distoglierlo, era capace di rimanere ore e ore davanti al cavalletto a mescolare colori cercando la gradazione perfetta per rendere il suo quadro unico e inimitabile.

Da quando era bambino aveva iniziato a usare il pennello. Acquarelli prima, tempere dopo, per terminare infine con i colori a olio, quelli che lo soddisfano maggiormente. La madre era così orgogliosa del talento del figlio, talento che aveva ereditato da lei e dal nonno materno, che spesso si trovava a discutere per ore con Domenico, il padre, che premeva perché il ragazzo intraprendesse la carriera di famiglia. Ma Giosuè non era intenzionato a diventare notaio, a lui tutte quelle noiose scartoffie non davano nessun brivido, di certo non lo stesso che sentiva scorrergli dentro le vene ogni qualvolta apponeva la sua sigla alla fine dell’opera.

Matilde fin da quando Giosuè era bambino, organizzava per lui mostre cercando di far conoscere a più persone possibili il talento dell’unico figlio. Le sue amiche la prendevano amorevolmente in giro per le ingenti spese che sosteneva ogni volta e Domenico era arrivato al punto di porle un limite.

Per lei mai era abbastanza.

La prima mostra di Giosuè si tenne in una galleria accanto alla biblioteca comunale e alla scuola quando lui aveva solo dieci anni.

Era il primo bambino a esporre i suo i lavori. In quell’occasione Matilde aveva invitato tutti i genitori e compagni di classe di Giosuè, la preside e alcune insegnanti sperando che gli stessi fossero in grado di comprendere il grande talento del figlio. Purtroppo, non era consuetudine nella loro città andare a mostre di pittura e la delusione per l’affluenza, solo la maestra di Giosuè, la preside con il marito e un paio di genitori si erano presentati, era stata grande. Non tanto per il bambino, quanto per la madre che era assolutamente convinta che tutti fossero pronti ad ammirare un artista in erba sconosciuto quale il suo ragazzo.

Matilde non si perse d’animo, per lei era ormai una missione, voleva a tutti i costi riuscire a divulgare le pennellate del figlio.

«Quale genitore è in grado di non amare i disegni del proprio pargolo?» le chiese Domenico durante l’ennesima discussione? «Siamo tutti bravi a tessere le lodi dei nostri figli, ma non possiamo pretendere che anche gli altri la pensino come noi. Giosuè dovrebbe comportarsi da bambino come tutti quelli della sua età, correre nei prati, divertirsi, sbucciarsi le ginocchia. E tu come madre dovresti fare in modo che faccia queste cose, perché la fanciullezza non tornerà più». Domenico non riusciva proprio a comprendere il motivo per cui Matilde insisteva a tutti i costi a organizzare quelle riunioni con gente che, se si presentava, lo faceva soltanto perché veniva offerto loro da bere e da mangiare, non perché realmente interessati a quello che un bimbo di dieci o dodici anni metteva su tela.

«Ma cosa dici? Hai mai guardato attentamente quello che TUO figlio dipinge? Ti sei mai spinto oltre la tua ottusità per cercar di catturare la bellezza che Giosuè nasconde tra una pennellata e un’altra? La passione che con ogni sferzata di colore imprime sulla tela?»

Matilde continuava a insistere perché ne era certa, suo figlio era dotato di un talento speciale e non poteva e non doveva andare sprecato.

E così anno dopo anno continuava a organizzare eventi e mostre per le opere del suo pargolo che venivano poi custodite in maniera maniacale nella rimessa che aveva fatto restaurare e sistemare in modo che la temperatura, l’umidità e la polvere non rovinassero quelle che per lei erano opere di grandissimo valore.

La mano di Giosuè proseguì imperterrita a dipingere quel paesaggio che era soltanto dentro la sua mente. Non la copia di una fotografia o l’osservazione di un preciso punto sulla faccia della terra, ma solo ed esclusivamente qualcosa che era dentro di lui o nella sua fantasia, come i ritratti che aveva fatto qualche tempo prima. Ne ha dipinti almeno cinque ma si tratta sempre della medesima persona, una ragazzina che man mano che il tempo passa, cresce e diventava sempre più affascinante, più matura, più donna. Se Matilde non fosse certa che Giosuè non abbia mai avuto nessuna modella, potrebbe benissimo pensare che quella donna venga a fargli visita per posare per quei ritratti senza farsi vedere da lei.

Matilde ha osservato spesso quei ritratti e cercato di capire se dietro di essi si nascondesse la donna di cui il figlio si è innamorato, ma tra le sue conoscenze nessuna le assomiglia e lui ogni volta che la trova intenta ad osservare quei ritratti, s’innervosisce e se prova a fare qualche domanda Giosuè le elude.

Il profumo di Matilde gli giunge alle narici e pian piano, nonostante sia molto concentrato, gli rivela la sua presenza.

Si volta di scatto con il pennello nella mano sinistra e la tavolozza nella destra.

Ebbene sì, Giosuè è un pittore mancino come Picasso e prima ancora Michelangelo.

«Cosa ne pensi?» Le chiede indicando la tela. Matilde socchiudendo gli occhi per mettere bene a fuoco osserva il dipinto al quale non manca davvero molto per essere terminato.

«Non so cosa dire. Lo trovo stupendo!» Il sorriso compiaciuto di Giosuè illumina la stanza.

«Sono lieto che ti piaccia, devo solo fare qualche piccolo ritocco e poi potremo aggiungerlo agli altri».

«Magnifico! Questa sarà una grande mostra, la più grande alla quale tu abbia mai partecipato, tutto sarà perfetto, ho già ricevuto quasi tutte le risposte agli inviti e sono tutte positive. Sono certa che sarà un successo, molto più grande di quella dello scorso anno».

«Beh, lo scorso anno abbiamo venduto circa il 60% delle mie opere esposte, non possiamo lamentarci».

«No, certo che no! Ma il mio obbiettivo è quello di venderle tutte e far sì che qualcuno brami per averne una, che facciano a gara per accaparrarsi un’opera del grande Giosuè Milani».

Matilde fa un giro su sé stessa prima di abbracciare il figlio.

«Dimmi tesoro, tu sei felice della tua vita?»

«Certo mamma. Come non potrei essere felice quando quello che faccio è mettere su tela i miei pensieri? Se fossi stato bravo a scrivere probabilmente avrei già scritto i miei pensieri in una decina di romanzi, forse di più… non so, non ho idea di quanto tempo occorra per scriverne uno, di certo molto di più che dipingere una tela. Ma questo è il talento che mi è stato donato e questo mi rende felice e orgoglioso».

«Sai, a volte penso che forse ti ho condizionato troppo» Matilde ripensa spesso alle parole di Domenico, a quando l’accusava di essere troppo pressante, di non lasciare a Giosuè spazio a sufficienza per fare altro, per divertirsi come tutti i bambini e ragazzi della sua età mentre i genitori dei suoi compagni di scuola andavano a vedere i figli giocare a pallone, a basket o a praticare qualche altro sport, mentre lui era ed è sempre solitario, e già in giovane età, girovagava per mostre e per musei sempre con la madre al suo fianco. Scrutava nei minimi dettagli le opere dei grandi pittori cercando di carpirne la tecnica. Leggeva libri di pittura, appendeva nella sua stanza copie di dipinti famosi mentre i suoi coetanei avevano i poster dei cantanti, delle attrici o degli idoli sportivi del momento.

«Ma cosa dici mamma! Tu non mi hai condizionato affatto, io ho sempre amato i colori, le immagini che riuscivo a esprimere su carta e poi su tela, spesso le parole per descrivere luoghi o persone non riesco a metterle insieme, mi si aggrovigliano nella testa, mentre sono perfettamente in grado di disegnarle. Tu hai solo contribuito a far si che io riesca ad esprimere me stesso nella migliore delle maniere. Non sarei mai stato un campione sportivo, con i bambini della mia età non mi divertivo e il lavoro di papà e del nonno prima di lui mi annoia a morte. Non farti nessuno scrupolo io sono felice della mia vita».

«Sì tesoro, lo comprendo ma…» risponde Matilde facendogli una carezza sul volto che porta i segni del suo lavoro con qualche schizzo di colore.

«Nessun ma… nessun pentimento, recriminazione o paura di avermi tolto qualcosa» conferma serio passandole anche lui la mano sporca di colori sul volto. Lei con le dita sfiora la pelle che lui ha appena accarezzato «tranquilla, il colore sulle mie mani è asciutto, non ti ho macchiata».

La testa di Matilde si scuote appena e un sorriso le appare sulle labbra.

«Se anche mi avessi macchiata non sarebbe stato un problema. Il calore della tua mano sulla mia pelle, ho cercato di trattenere quello». Restano un attimo in silenzio poi Matilde non può farne a meno, sono ormai anni che si pone la stessa domanda.

«Giosuè, chi è quella bellissima donna che continui a dipingere?» Mentre lei lo interroga il volto di Giosuè cambia espressione come tutte le volte che lei ha tentato di porre lo stesso quesito, ma questa volta non vuole demordere. Suo figlio ha trent’anni è sempre in sua compagnia e di pochissime altre persone e non l’ha mai visto in compagnia di una ragazza. Non le importerebbe se i suoi gusti fossero differenti, lui resterebbe sempre il suo amato figlio, ma desidera per lui di più. Desidera che non resti mai solo ben sapendo che lei stessa non è eterna e prima o poi…

«Chi è? Qualcuna che conosci?»

Giosuè continua a non rispondere e a fissare fuori dalla finestra.

«Tesoro, se quella donna è colei che ami, forse dovresti…»

«Mamma, so cosa vuoi dire. Colette Duphine. Questo è il suo nome. L’ho conosciuta tanto tempo fa, una delle poche ragazze che si sono presentate alla mostra dei miei quindici anni. Era una ragazzina dolcissima. Abbiamo scambiato quattro parole, mi ha raccontato che il padre è un militare e che spesso sono costretti a spostarsi».

Matilde lo osserva mentre parla, cerca di spremere le meningi per tornare indietro di quindici anni, ma niente. Allora osa chiedere ancora.

«L’hai conosciuta quindici anni fa, come fai a sapere che aspetto ha adesso?» Prosegue nel tentativo di capirne di più additando l’ultimo ritratto «vi siete incontrati ancora?»

«Lo so perché lei è sempre nei miei sogni e perché per quanto io rifugga i social, sono riuscito a trovarla e a chiedere la sua amicizia» rivela.

Matilde è sconcertata. Suo figlio innamorato di una donna che ha visto solo in fotografia.

«Ci siamo incontrati una volta. Cinque anni fa» svela «ma lei era fidanzata. Abita a cinque chilometri da qua. Stava per sposarsi e io… beh, cosa potevo fare? Così abbiamo mantenuto l’amicizia, ci salutiamo di tanto in tanto, chiacchieriamo spesso ma non ci siamo più incontrati. Le ho raccontato dei ritratti, glieli ho anche mostrati e lei ne è entusiasta».

«Sono bellissimi e sembra che lei parli» commenta e poi «domani viene il fotografo per immortalare alcuni dei tuoi lavori, fossi in te farei inserire nel catalogo della nuova mostra anche uno di questi ritratti».

«Non so, non vorrei che Colette disapprovasse» lui è dubbioso.

«E perché dovrebbe? Hai forse ricopiato una sua foto?»

«No! Non mi sarei mai permesso. Quelle espressioni, quelle pose, quei sorrisi, sono tutti frutto della mia fantasia, dei miei sogni. In questi ritratti è come io la vedo».

«E allora che male ci sarebbe? Chi potrebbe mai riconoscerla?»

«Non so, mi sembrerebbe di farle un torto».

«Tu sei innamorato di una donna che non potrà mai essere tua. Forse avresti bisogno di incontrare altre ragazze» prova a dire a suo figlio. Ma lui scuote il capo.

«L’amore non si comanda, così come il talento. Sono cose che non puoi dirigere. Il cuore decide a chi donarsi senza che nessuno e niente possa condizionarlo. Il talento se lo hai insito in te puoi migliorarlo questo sì, ma non potrai mai andare a cercarlo e farlo tuo con la forza».

Questo argomento sconvolge Matilde, vorrebbe poter fare qualcosa per il suo figliolo, ma cosa?

Quella stessa sera Giosuè si connette al social dove ha ritrovato Colette e prova a mandarle un messaggio in privato.

«Ciao, come va?» scrive e attende con la speranza che lei possa conversare. Non sempre le è possibile perché nonostante le loro conversazioni siano assolutamente amichevoli e vertano su argomenti del tutto innocui, il marito di Colette è sempre molto sospettoso.

Inutile restare a fissare lo schermo in attesa di una risposta, in caso positivo il suo smartphone lo avviserà. Riprende in mano il libro che aveva iniziato a leggere il giorno prima e si stende sul letto.

Pochi istanti dopo il bip della notifica glielo fa riporre accanto.

«Ciao, io bene e tu? Hai dipinto molto oggi?»

«Ho terminato un quadro per la mostra».

«Un altro paesaggio oppure…»

«Questa volta un’isola. Quella dove mi piacerebbe poter vivere» stava per scrivere con te, ma si ferma in tempo.

«Sarà sicuramente un luogo splendido. E dimmi hai fatto altri miei ritratti a memoria? L’ultimo che hai fatto vedere mi rendeva così bella».

«Ma tu sei bella, io non ti ho reso diversa da come sei». Colette inserisce nella chat alcune emoticon ridenti e una imbarazzata prima di scrivere il suo pensiero.

«Sei molto gentile, ma io credo che tu mi stia adulando. Non mi vedo così bella quando mi specchio e poi sono anni che non ci vediamo».

«Dovremmo rimediare allora, potresti venire alla mia mostra» azzarda.

«Mi piacerebbe tanto, ma mio marito non ama la pittura».

«Allora potresti venire nel mio atelier e avere un’anteprima».

Subito dopo aver inviato si pente di averla invitata, certo sarebbe felicissimo se lei accettasse, ma… forse si è spinto un po’ troppo in là, ha esagerato. Si era ripromesso di non invitarla mai per non crearle problemi.

Colette non risponde, vede il suo stato “online” ma sono passati già alcuni minuti e lei non scrive.

«Mi auguro di non aver creato qualche problema» pensa e continua a fissare lo schermo in attesa.

Finalmente dopo attimi di panico “sta scrivendo” compare nella chat.

«Mi piacerebbe se fosse possibile. Avrei un pomeriggio a disposizione dopodomani se per te va bene». Rilegge almeno cinque volte il messaggio prima di rispondere tanto che Colette inizia ancora a scrivere.

«Se non è possibile va bene ugualmente».

«No, no!  È perfetto! Non credevo che avresti accettato e ho dovuto darmi un pizzicotto per essere sicuro che non stavo sognando». Almeno cinque faccine ridenti compaiono nella chat e Giosuè risponde con una compiaciuta, le ripete ancora una volta l’indirizzo ma lei lo assicura che non lo aveva dimenticato affatto e poco dopo si salutano.

Il fotografo irrompe in compagnia di Matilde nell’atelier. Giosuè appena li vede si eclissa. Non ha voglia di osservare il lavoro dell’uomo, sua madre è perfettamente in grado di stargli dietro e lui si rifugia in biblioteca in cerca di tranquillità.

Domani Colette verrà a fargli visita, non ha detto nulla a Matilde, ma è ben contento che quello sia il giorno che riserva al suo circolo artisti così non dovrà necessariamente inventare qualche scusa per allontanarla.

Si sente come uno studente davanti alla commissione d’esame. Colette è arrivata portando con sé un delizioso profumo di gardenie. Si salutano frugando entrambi negli occhi dell’altro per carpire anche il minimo sentimento. Con un sorriso impacciato Giosuè l’invita ad accomodarsi.

«Da questa parte» le fa strada dentro il suo regno.

Era indeciso se farsi trovare in tenuta da lavoro o almeno per una volta senza colore sulle mani e qualche sbaffo sul viso. La seconda opzione ha vinto e così si era infilato una t-shirt bianca e un paio di jeans neri. Lei ha optato per un look identico solo che la sua t-shirt è a righe e i jeans blu. Sembra una marinaretta.

Dopo averle mostrato parecchi quadri, Colette insiste per vedere dal vivo quelle tele che la rappresentano. Giosuè un po’ si vergogna ma non può certo negarglielo.

«Le hai già viste, non sono cambiate» tenta di dissuaderla, ma lei insiste fino a quando gli tocca capitolare difronte a quegli occhi neri come la pece che lo pregano di acconsentire.

Appena gliele mostra lei rimane incantata, le guarda piegando il capo e cercando di cogliere ogni piccolo particolare fino a passare delicatamente le dita sulle tele. Si volta e lo fissa emozionata.

«Sono bellissime! Viste dal vivo lasciano senza fiato» commenta mentre il cuore di Giosuè fa mille capriole. La soddisfazione non è paragonabile a nessun altra. Neppure a quella che provò quando il secondo più grande critico d’arte si complimentò con lui durante la precedente mostra.

«Forse un giorno potrò posare per te e commissionarti un mio ritratto in modo che io possa poi esporlo nella mia casa. Non ti chiedo questi perché non saprei come giustificarli, ma farò di tutto per poter avere una tua opera da ammirare e far ammirare» gli dice prima di congedarsi.

«Giosuè» Matilde irrompe nell’atelier con in mano un libretto «è arrivato il catalogo!» prosegue eccitata «questa volta è davvero spettacolare, lo hanno già inviato a tutti gli invitati e messo a disposizione di molte gallerie». Gli comunica raggiante. A lui poco importa di guardare le sue opere su un opuscolo dove sembrano senza alcuna vita, si fida di quello che la madre gli dice e nonostante lei lo lasci sul tavolino prima di uscire, non lo degna di uno sguardo.

Manca davvero poco alla data della mostra: due giorni. Nel pomeriggio finalmente l’atelier verrà liberato dagli imballaggi che devono custodire le opere che verranno esposte nella galleria durante il trasporto. Si sente soffocare da quel caos, tanto che non riesce a passare neppure una pennellata sulla tela bianca che ha sistemato sul cavalletto.

«Ci devo rinunciare, mi sento mancare l’ispirazione» pensa prima di uscire. «Tornerò qui appena tutto sarà stato portato via».  

Questa notte non riesce a riposare, si gira e rigira nel letto senza riuscire a prendere pace. Matilde lo ha avvisato che tutte le opere sono state consegnate e che domani passerà la giornata alla galleria insieme agli operai.

«Sarebbe carino che ci fossi anche tu mentre appendiamo i quadri, così puoi dare il tuo parere sulla disposizione». Quella non è una richiesta, ma un ordine e per quanto a lui queste incombenze non piacciano assolutamente, mandandolo in paranoia, gli è chiaro che nessuno meglio di lui può sistemare il suo lavoro in base ad una certa logica.

Giunti nei pressi della galleria, un fumo nero e acre si spande nell’aria ed entra nelle narici. Qualcosa sta andando a fuoco. Le sirene dei pompieri e della polizia rombano fischiando nei timpani.

«Cosa mai sarà accaduto?» si domanda Matilde, ma appena svoltato l’angolo l’angoscia e lo sgomento prendono possesso di madre e figlio. Il fumo nero e denso esce proprio dalla galleria d’arte, e la schiuma dei pompieri sta facendo del suo meglio per tenerlo a bada.

Mentre il cliente lo sta facendo attendere durante una chiamata a Fratti capita in mano il catalogo della mostra. Inizia a sfogliarlo e la sua attenzione viene catturata da uno dei dipinti che verranno esposti nella galleria.

Un ritratto di donna.

Quella donna lui la conosceva perfettamente.

Con quella donna lui è sposato da cinque anni.

Non ci sono dubbi, quella donna è la sua Colette.

«Lei ha posato per un pittore?» Pensa sconcertato.

Con nonchalance inserisce il catalogo nella sua ventiquattrore e fa un salto alla galleria cercando di prendere informazioni sulla mostra.

«Sì, la mostra si terrà il tredici di febbraio, proprio come riportato sul catalogo» gli spiega la ragazza. Cercando di celare il troppo interesse chiede come funzionava tutta l’organizzazione e così viene a sapere che i quadri saranno stati consegnati solo due giorni prima l’undici in modo che il dodici l’artista e la gallerista si potranno occupare della disposizione ottimale per ognuno di loro.

La notte tra l’undici e il dodici febbraio armato di liquido incendiario, Fratti si introduce nella galleria e fa in modo che quei quadri non possano mai essere ammirati da nessuno distruggendo la felicità di Matilde e Giosuè.

Fine 

 Eravamo in 26 partecipanti, questo mio è arrivato tra i primi 10. A voi è piaciuto? Vi leggo con piacere nei commenti.

Laura

 

 

 

 

 

Cover, titolo e trama reveal della novella Natalizia


Come detto qualche giorno fa, una novella Natalizia sta per arrivare.

Il titolo:

Una famiglia per Natale

Cover

La trama:

Tratto da una storia vera.
Qualche giorno prima di Natale, il proprietario di una cagnolina che ha partorito da poco, abbandona sul ciglio della strada i tre cuccioli che nessuno ha voluto adottare.
Per i tre malcapitati, soli, spauriti e senza cibo né acqua, lasciati in mezzo alla natura in un luogo a loro sconosciuto inizia il viaggio alla ricerca di un posto dove essere accolti con calore e affetto.
Viaggio che si tramuta ben presto in un’odissea fatta d’incontri non proprio piacevoli fino a quando giungeranno davanti alla casa di Valeria, Ricky e Lexie che li accoglieranno in famiglia regalando loro un caldo e affettuoso Natale.

Una storia che si ripete tutti i mesi dell’anno purtroppo 😞

Se vi incuriosisce, potete già peordinare l’eBook al prezzo promo di 0,99 fino e compreso il giorno dell’uscita. Poi 1,59.

La troverete online in tutti i formati a partire dal 12 Novembre.

Buona lettura.

Laura

Perchè proprio io?


Alcune settimane fa, ho partecipato ad una rubrica ideata da una scrittrice di nome Elena Piras presente su Instagram autrice di varie opere davvero da leggere.

Questa sua rubrica consisteva nel creare una breve storia partendo da un suo incipit e sviluppandola poi a nostro piacemento e raccontandola in quattro puntate.

Oggi abbiamo messo la parola “fine” a questa rubrica pubblicando la quarta puntata e ora, ho deciso di condividerla anche con voi per intero.

Spero che sia di vostro gradimento.

Il titolo di questo mio piccolo racconto è esattamente quello che leggete nel titolo di questo post:

Perchè proprio io?

di Laura Parise

“Ma cosa state dicendo? Lasciatemi!”
“Signorina lei ha rubato, dobbiamo portarla al commissariato di zona.”
“Non è vero!”

La ragazza si guardò intorno in cerca di aiuto ma la gente che la circondava la osservava come fosse una delinquente, i volti pieni di rammarico e di indignazione, come se fosse la peggiore delle criminali.

Ma loro non sapevano. Era molto più facile osservare l’evolversi della situazione piuttosto che farsi avanti e confermare la versione della ragazza. Qualcuno doveva necessariamente aver visto la scena ma, come poteva spiegare che lei, quel portafoglio lo aveva trovato dentro la sua borsetta mentre stava cercando il cellulare e d’istinto lo aveva rimesso dentro in modo alquanto fulmineo senza rendersi conto di essere osservata e che quel gesto avrebbe potuto trarre in inganno chiunque?

E in effetti, praticamente un secondo dopo che aveva compiuto quel gesto, delle urla avevano attratto l’attenzione dell’agente di sorveglianza che l’aveva immediatamente presa per un braccio bloccandola e intimandole di fermarsi.

L’uomo che continuava a sbraitare dall’altra estremità del negozio che lo avevano derubato e che additava lei come colpevole, le sembrava di averlo già visto da qualche parte, ma al momento la sua mente non era abbastanza lucida da ricordare dove.

“Se non hai rubato, come mai questo portafoglio si trova nella tua borsetta?” le chiese l’agente infilando le mani dentro l’apertura della borsa.

“Eccolo! È il mio portafoglio!” urlò ancora una volta quell’uomo mentre l’agente sventolava in aria l’oggetto incriminato.

“Io non l’ho rubato e non ho neppure idea di come ci sia finito dentro la mia borsa!” provò a spiegare, ma sembravano parole al vento perché l’agente la guardava con ghigno di scherno e scuoteva il capo.

“Non sarai per caso cleptomane?” la schernì.

“Non ho mai rubato niente in vita mia! Neppure una caramella!” protestò ancora una volta la sua innocenza. “Non ho alcun bisogno di rubare portafogli a chicchessia!”

“Su questo non ho alcun dubbio” le rispose l’agente osservandola da capo a piedi.

Tutti gli indumenti che indossava, compresi gioielli, scarpe e borsa erano decisamente molto costosi. Non poteva certo averli rubati tutti, di sicuro era una ragazza facoltosa che annoiata dalla solita vita cercava un po’ di adrenalina e invece di farsi di cocaina come tante che aveva conosciuto, lei andava per negozi a rubare portafogli.

“Le dico che non sono stata io a rubare questo portafoglio e a infilarmelo in borsa! Probabilmente qualcuno dei tanti clienti che affollano questo negozio e che ora mi stanno guardando come se fossi la peggiore dei criminali, ha commesso il furto, ma non ha avuto il coraggio di portare fuori la refurtiva e ha pensato bene di mettere me in mezzo”.

Risponse ritrovando la lucidità necessaria per rigettare quelle accuse mentre l’agente iniziava a sghignazzare.

“Ah, ah, ah! Adesso vorresti accusare qualcun altro al posto tuo? Certo che ne hai di fantasia!”

“Chi mi accusa? Quel tizio che urla come un ossesso? Siamo sicuri che il portafoglio sia davvero il suo?” ribatté ancora una volta.

“Senta lei, venga qui.” Disse rivolto all’uomo. “Mi dica cosa contiene questo portafoglio prima che io lo apra, così chiariremo immediatamente se le appartiene. A quanto pare qui, la nostra Perry Mason in gonnella sostiene il contrario”.

La folla che si era radunata era piuttosto consistente, sembravano tutti interessati alla scena e non si preoccupavano affatto di quello che stava accadendo nel resto del negozio.

L’uomo, guardando la ragazza con sdegno si avvicinò al gruppo e iniziò ad elencare cosa era contenuto nel portafoglio.

Dallo sguardo che l’agente gli rivolgeva ad ogni oggetto elencato era facile intuire che qualcosa non quadrava.

«Mi ripeta il suo nome prego?” chiese l’agente rivolto all’uomo.

“Bernardo Giovine” rispose prontamente. L’agente scosse il capo.

“Ne è proprio sicuro?”

“Agente!” esclamò il tizio “vuole che non sappia come mi chiamo?”

“E quindi mi conferma che questo è il suo portafoglio?” chiese ancora l’agente sventolandoglielo sotto il naso. L’uomo rivolse all’oggetto tutta la sua attenzione strizzando gli occhi prima di rispondere.

“Sembra proprio il mio. Sì!”

“Ma ne è sicuro al cento per cento?” chiese ancora l’agente con tono sempre più scettico.

“Cosa vuole che le dica? Sembra proprio il mio!” disse tastandosi le tasche e cambiando immediatamente espressione.

Il volto dell’uomo iniziò a colorirsi di rosso, le guance e il naso avevano preso fuoco mentre con gli occhi si guardava intorno alla ricerca di una via d’uscita. Tutto questo non sfuggì all’agente

“Cosa le prende?” chiese in modo burbero.

“Ec… ecco” iniziò a balbettare il tizio “credo… credo…”

“Cosa crede?” gli urlò in faccia l’agente. All’uomo non rimase altro che infilare la mano nella giacca e tirar fuori il suo portafoglio.

“Mi… mi… scusi tanto agente! Devo aver riposto il portafoglio nella tasca sbagliata della giacca” rispose sempre più paonazzo e mostrando il “corpo del reato” alla folla che cominciò a bisbigliare.

L’agente sempre più furioso strattonò l’uomo per il braccio.

“E così questo sarebbe il suo portafoglio?” Gli chiese in tono di scherno “non deve scusarsi con me, semmai con la signorina” proseguì. Liala scosse il capo prima di intervenire.

“Ha visto agente? Gliel’avevo detto che non avevo rubato nulla!” disse incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra nervosamente.

“Signorina!” iniziò Giovine con voce contrita “Mi dispiace davvero tanto!” le disse mentre lei gli lanciò un’occhiata di fuoco.

“La prossima volta che grida al lupo al lupo, si assicuri che il lupo ci sia veramente!” rispose lei suscitando l’ilarità della folla che prima l’aveva giudicata colpevole senza minimamente preoccuparsi se lo fosse realmente.

“Quanto a voi, gentile pubblico, prima di ruggire contro un leone, assicuratevi di non essere pecore!” proseguì la ragazza.

Alcune persone si dileguarono all’istante, mentre altre continuarono a voler assistere alla scena. L’agente, togliendosi il berretto e lisciandosi i radi capelli iniziò a porgere le sue scuse nei confronti di Liala.

“Mi spiace per l’inconveniente signorina” le disse mentre lei porgeva la mano aperta con il palmo rivolto all’insù verso l’agente. Voleva che le restituisse il portafoglio.

“Agente, lei prima di processare una persona, si accerti di aver acciuffato il vero colpevole”.

Contrito l’agente annuì e le porse il portafoglio che lei gli strappò di mano e cacciò nuovamente dentro la borsa. Girò sui tacchi e fece il gesto di allontanarsi.

L’agente notando il gesto mise a grattarsi il capo prima di rivolgerle ancora la parola.

“Signorina!” la bloccò. Liala con lentezza alzò il capo in direzione dell’uomo pronta ad attaccarlo ancora.

“Cos’altro vuole?” gli chiese seccata.

“Perché ha rimesso il portafoglio in borsa se prima mi ha detto che non aveva neppure la minima idea di come ci fosse finito?”

 

Liala non si fece cogliere impreparata.

“Senta, che io non abbia avuto la più pallida idea di come ci fosse finito, non vuol dire che io lo abbia sottratto a qualcuno” rispose altezzosa “quel portafoglio potrebbe benissimo essere di un mio amico o del mio ragazzo. Non ho avuto modo di controllarlo ma, vede agente, io frequento molte persone, spesso stiamo in comitiva, potrebbero benissimo averlo messo dentro la mia borsa per sbaglio, quando constaterò a chi appartiene, sarà mia premura restituirglielo” terminò facendo una smorfia e voltandosi nuovamente verso l’uscita lasciando l’uomo con il suo dubbio.

Una volta fuori si concesse il lusso di riprendere a respirare normalmente. Tutto quello che aveva appena detto era esclusivo frutto della sua fantasia.

Erano due anni che non aveva un ragazzo e, amici e comitiva erano per lei solo un sogno.

La verità era che suo padre, da quando Estelle, sua madre, l’aveva lasciato, continuava a tenerla lontano da tutti, non le permetteva di frequentare altri ragazzi della sua età, tanto meno di avere l’opportunità di fare conoscenze. Era sempre scortata da Diego in qualsiasi luogo si recasse, e la prestanza dell’uomo mista alla sua aura da duro, tenevano tutti lontano. La paura di Don Mario era che anche Liala, stanca di dover sopportare i suoi malumori quotidiani, se ne andasse.

Quando l’agente l’aveva fermata, il primo pensiero era corso al suo anziano padre. Credeva che Diego lo avesse già informato del fatto che era riuscita a sfuggire alle sue attenzioni ma forse, il luogotenente di Don Mario, prima di ricevere una lavata di capo dal suo principale era da qualche parte che la stava cercando.

Non era intenzionata a fuggire, dove avrebbe potuto andare senza avere qualcuno che l’ospitasse? Poteva avere a disposizione tanti soldi ma, erano soldi di suo padre e se lei avesse usato la carta di credito in pochi istanti l’avrebbe rintracciata.

Voleva solo godersi una giornata tranquilla per le vie della città senza avere sempre il fiato sul collo. Attraversare una via senza prima dover avvisare, entrare in un negozio senza che Diego sostasse sulla porta per controllare chi entrava e chi usciva.

La sua era una bravata, ne era ben consapevole ma, dopo aver visto quell’uomo aveva deciso che doveva conoscerlo a tutti i costi e quale occasione migliore le si poteva presentare se non la sbadataggine del tizio che non si era accorto di aver perso il portafogli quando si era alzato dal tavolino del bar dove aveva consumato un’abbondante colazione sotto lo sguardo vigile di Liala?

Così aveva architettato quel piano. Uscire di soppiatto la mattina molto presto, recarsi a far colazione nello stesso bar del giorno precedente con la speranza che l’uomo si facesse vivo e avvicinarsi a lui porgendogli quanto aveva perso il giorno prima.

Aveva passato la serata e anche la notte a digitare sul computer il nome e il cognome di Eros ma non era riuscita a rintracciarlo in nessun social. Quell’uomo dall’aspetto intrigante, gli occhi neri come il carbone, il mento volitivo e i capelli cortissimi non erano presenti da nessuna parte e lei si era dovuta accontentare di continuare a guardare la foto della sua patente e quella di un abbonamento ad un fitness center fantasticando su di lui e sull’incontro che avrebbe potuto cambiarle la sua monotona vita.

Non aveva funzionato, Eros non si era presentato. Era rimasta ad aspettare nel bar per ben due ore, ma di lui neppure l’ombra.

Avrebbe potuto chiedere al barista, mostrargli il portafoglio e dire che lo aveva trovato, ma questo avrebbe dovuto farlo il giorno prima.

Così aveva deciso di andare in palestra con la scusa di voler fare l’abbonamento; era certa che le avrebbero permesso di entrare almeno la prima volta senza essere iscritta.

Nel caso le facessero storie, aveva anche preparato un discorsetto, ma prima di tutto doveva andare a comprare un completino da ginnastica. Per questo motivo si era trovata in quel negozio dove le avevano solo fatto perdere un sacco di tempo prezioso.

Una volta dentro alla palestra, nel caso lui fosse stato presente, avrebbe dovuto escogitare il modo per restituirgli il portafoglio senza spiegargli dove lo aveva trovato.

Mentre nel camerino si provava il nuovo completino, aveva pensato anche a questo: gli avrebbe detto che aprendolo aveva scoperto che frequentavano la stessa palestra e così aveva pensato di portarglielo lì e se non l’avesse incontrato di lasciarlo alla reception.

Guardandosi intorno alla ricerca di un taxi iniziò a camminare nella direzione della palestra, non poteva permettersi di perdere altro tempo anche se non era affatto sicura che Eros si sarebbe recato lì quella mattina. Stava tentando la sorte e sperava che almeno una volta nella sua vita fosse dalla sua parte.

Aveva il suo indirizzo di casa, questo sì, ma lo teneva come ultimissima risorsa.

«Buongiorno, come posso aiutarti?» le chiese la ragazza seduta al bancone.

«Ciao, ho sentito parlare molto bene della vostra palestra e vorrei, se possibile, fare una prova prima di iscrivermi»

«Certo. Dammi nome e cognome» disse la ragazza che, si apprestò a vergarli su di un tesserino che le porse dicendole «Prendi questo pass, e accomodati pure da quella parte» terminò indicandole la porta degli spogliatoi.

Adesso doveva solo attendere facendo finta di fare ginnastica, con la speranza che Eros si presentasse.

Dopo due ore di sudata inutile, decise di abbandonare anche quella opzione. Non le restava altro che recarsi a casa di Eros. Ormai era ora di pranzo.

«Allora? Cosa ne dici della nostra palestra? Ti ha convinto?» le chiese la ragazza da dietro il bancone quando la vide uscire.

«Oh, è davvero un posto spettacolare, siete attrezzatissimi, non c’è dubbio!» La ragazza le regalò un enorme sorriso compiaciuto.

«Allora sarai dei nostri!» affermò convinta.

«Perché no? Ripasso in settimana per confermare l’iscrizione» disse avviandosi velocemente verso l’uscita prima che la ragazza potesse ancora aprir bocca.

Davanti al portone dell’edificio dove abitava Eros c’era di guardia un portiere con tanto di divisa in perfette condizioni. “Sembra uno di quelli che sostano davanti alla villa di mio padre” pensò Liala guardandolo. Di certo non avrebbe potuto entrare senza essere vista.

«Signorina, desidera?» le chiese, infatti, l’uomo che la squadrò da testa a piedi.

«Ho appuntamento con il signor Eros Frassinelli» disse assumendo un tono e un atteggiamento altezzoso.

«Prego si accomodi, il signorino Eros abita al secondo piano» rispose l’uomo.

Prima che potesse aggiungere altro, Liala entrò dentro l’androne e si diresse verso la scalinata di marmo. Si trattava di un antico palazzo, forse un tempo appartenuto ad una importante famiglia, o addirittura alla famiglia di Eros, perché da come aveva risposto il portiere e dallo sfarzo che poteva osservare, di certo non si trattava di gente comune.

Suonò il campanello e pochi istanti dopo una donna in uniforme comparve alla porta.

«Prego, si accomodi, il signorino Eros la sta aspettando» le disse facendosi da parte per farla entrare.

“Cavolo! Il portiere è stato davvero celere” pensò tra sé Liala.

La donna le fece strada verso una porta chiusa, l’aprì e introdusse la sua visita

«La signorina Liala è arrivata» disse. Le fece cenno di entrare e richiuse la porta mentre Liala restava di stucco. La bocca aperta e gli occhi spalancati.

Davanti a lei sedevano Eros e suo padre con tanto di tazzine di caffè poggiate sul tavolino di fronte a loro.

«Ben arrivata Liala» andandole incontro disse Eros con voce gentile ma allo stesso tempo profonda. Le porse la mano e le indicò una poltrona dove potersi accomodare.

Liala continuava a restare in silenzio, troppo grande era lo stupore provato nel trovare il genitore in compagnia di Eros.

«Figliola, ci stavamo giusto chiedendo quanto tempo avresti impiegato ancora per arrivare» le disse il padre.

«Sono felice di constatare che nonostante tutto, tu sia riuscita a districarti da quella situazione imbarazzante che hai dovuto sopportare nel negozio di abbigliamento. E, devo dire che, hai fatto davvero bene a fare un po’ di ginnastica. Te lo dico sempre che fa bene al fisico ma anche alla mente» proseguì l’uomo lasciandola ancor più di stucco.  Credeva di esser sfuggita al controllo genitoriale invece tutto era stato orchestrato a doc.

«Bene» disse Don Mario «è giunto il momento che io mi ritiri a casa. Ragazzi, vi auguro un piacevole pranzo e un altrettanto piacevole pomeriggio. Sono proprio orgoglioso di te figlia mia!» le disse dandole una carezza sul viso e recandosi verso la porta solo dopo aver stretto la mano di Eros. Una volta chiusa la porta, Liala ritrovò l’uso della parola.

«Mi avete teso una trappola!» Urlò verso Eros alzandosi dalla poltrona.

«Liala, perdonami. È tutta colpa mia, ti ho vista in compagnia di Diego più volte nei mesi passati, volevo avvicinarmi ma, temevo di non essere gradito, così ho preso qualche informazione e, una volta ho scoperto il tuo nome e il fatto che tu fossi la figlia del miglior amico di mio padre, ha fatto sì che potessi incontrarmi con lui e farmi conoscere. Sapevo bene che tuo padre desiderava per te un compagno alla tua altezza e di cui fidarsi ma, non voleva essere lui a presentarti a me per paura che tu mi rifiutassi di proposito giusto per dispetto, così ho architettato questo piccolo imbroglio per capire se tu, ti saresti recata da me di tua iniziativa» le confessò con la speranza che Liala lo perdonasse. Liala era ancora una volta senza parole.

«Posso solo dirti che sono felicissimo di averti qui e di avere occasione di conoscerti e di farmi conoscere» terminò in attesa che Liala dicesse qualcosa.

Liala prese un lungo e profondo respiro prima di sciogliersi in un sorriso.

«Certo che sei davvero un grande stronzone!» gli rispose ridendo «ma visto che sono qui, tanto vale fare la reciproca conoscenza» proseguì mentre vide che Eros sciolse le spalle che aveva tenute contratte per tutto il suo lungo discorso di scuse.

«Piacere, io sono Eros e sarei felice di averti qui a pranzo con me» disse l’uomo porgendole la mano.

«Il piacere è tutto mio. Sono affamata!»

Fine

Ritorno


È il titolo che ho dato ad un breve racconto con il quale ho partecipato ad una rubrica di scrittura intitolata #scrivereinautunno

Le regole erano quelle di scrivere immaginando il/la protagonista seduto in una caffetteria che osservava fuori dalla vetrata le foglie secche che svolazzando seguono il vento.

🍁✍🍁

Tornare in quel luogo, soprattutto d’autunno, gli riportava alla mente meravigliosi pomeriggi trascorsi con i ragazzi del posto a raccogliere castagne, in cerca di funghi o semplicemente a calpestare nel bosco le foglie rinsecchite cadute dai rami, quando, le preoccupazioni erano solo degli adulti, le raccomandazioni le ascoltava con un’alzata di spalle e il suo unico desiderio era quello di assaporare le invitanti labbra di Sarah, la figlia di Marta, la migliore amica di Diana sua madre.

Ma lui, per lei, era solo uno dei tanti conoscenti. Sarah dava a tutti i ragazzi poca confidenza, si dedicava quasi esclusivamente allo studio, alla raccolta fondi per la casa anziani che sua madre gestiva e difficilmente si lasciava convincere ad andare a bighellonare in giro. Era sempre così impegnata, così seria, così lontano dal suo mondo che George non aveva quasi il coraggio di avvicinarla se non fosse stato per quelle volte che lei accompagnava la madre a far visita alla sua e lui si trovava per puro caso tra le mura domestiche. Quelle visite erano per lui momenti di pura gioia, poterla guardare anche solo di nascosto, imprimersi nella mente ogni suo minimo dettaglio, ascoltare il suono melodioso della sua voce quando veniva interpellata dalle domande di Diana e lei si accalorava nel raccontarle dei suoi innumerevoli impegni.

Sarah, sembrava non rendersi conto di quanto fosse bella, di quanto la sua innata grazia lo incantasse e di come il suo sorriso aveva il potere di illuminare anche la più cupa delle giornate. Aveva addosso i colori dell’autunno. Morbidi capelli lunghi del colore delle castagne trattenuti dal cerchietto arancione come le foglie appena cadute, occhi verdi come gli aghi dei pini sempreverdi ombreggiate da folte ciglia, labbra rosse come le bacche e guance che, a un complimento inaspettato, le si colorivano come il melograno maturo. 

Non aveva notizie di lei da quando si era trasferito per lungo tempo all’estero per migliorare il suo curriculum di medico. Nessuno era a conoscenza del suo amore segreto per quella ragazza e sua madre non gli aveva mai dato notizia di lei nelle sue lunghissime telefonate. Ma adesso stava tornando, aveva finito di gironzolare per il mondo, voleva finalmente mettere su il suo studio e voleva farlo nel suo paese natio.

Chissà in quanti si sarebbero stupiti nel vederlo adesso. Qualcuno probabilmente non lo avrebbe neppure riconosciuto. Cinque anni sono molti, e il suo peregrinare non solo lo aveva maturato mentalmente ma anche fisicamente. Ora, a ventotto anni, non era più quel ragazzo gracilino, magro e senza muscoli che aveva lasciato Chester.

Adesso era un uomo con un fisico asciutto e ben scolpito, con spalle larghe e gambe tornite; i riccioli ribelli castano scuro che gli coprivano gli occhi avevano lasciato il posto ad un taglio curato che lasciava libero il suo sguardo profondo come le acque dei Finger Lakes i laghi allungati di origine glaciale che sembrano formare le dita di una mano presenti nel Vermont.

Si era fermato in quella caffetteria all’inizio del paese per calmare quell’impellente desiderio di caffè che lo aveva colto, ne era quasi dipendente.

Non aveva fretta, sua madre non lo stava aspettando, lui non le aveva ancora comunicato il giorno del suo arrivo. Voleva farle una sorpresa.

Seduto al tavolino dietro la vetrata che dava sul giardino osservava le foglie degli alberi che cadevano al suolo formando un tappeto dai mille colori caldi come il liquido che stava sorseggiando. Il giardiniere stava tentando di raccoglierle, ma un venticello dispettoso non appena lui ne aveva radunate un po’ soffiava sul mucchio appena formato creando mulinelli di foglie che si libravano nell’aria andando a spargersi nuovamente sul vialetto.

Lo scampanellio della porta annunciava l’arrivo di un nuovo avventore.

«Buongiorno Daila, tutto bene stamattina?»
Quella voce! L’avrebbe riconosciuta tra mille e la risposta della proprietaria del caffè gli confermò quanto il battito accelerato del suo cuore gli stava già dicendo.

Cosa ve ne pare?

Laura